Quando le unità abitative non solo offrono una soluzione di base (l’alloggio), ma integrano al loro interno servizi che promuovo relazioni tra vicini per la gestione della vita di tutti i giorni, allora possono essere definite come abitazioni collaborative (Rogel 2013, Rogel & Corubolo 2012).
Abitare collaborativo è un termine non ancora codificato in modo unitario e che caratterizza la collaborazione tra gli abitanti in varie fasi del progetto: dall’ideazione all’abitare vero e proprio. Tale definizione include, almeno nel panorama italiano, una variazione di tipologie che vanno dal co-housing alla cooperativa di abitanti, dal condominio solidale all’eco-villaggio, attraversando le diverse forme di comunità abitative; mondi che partono da premesse diverse e si sviluppano -altrettanto- verso differenti prospettive di accoglienza e residenzialità.
Ciononostante, è possibile individuare elementi trasversali comuni a queste tipologie, che possiamo così riassumere: l’esistenza di spazi comunitari esterni e interni (sale comuni, area giochi, terrazzo, orto…); la presenza di servizi e attività gestiti dalla comunità di abitanti (lavanderia comune, GAS, banca del tempo, servizi collaborativi e animativi…) tendenzialmente ma non esclusivamente introversi; l’adozione di un processo di genesi della struttura di natura partecipativa. Sono case partecipative e accessibili, innovative e inclusive, e uniscono, agli spazi privati dedicati ai singoli o ai nuclei, luoghi e servizi per la condivisione, lo scambio e il consumo consapevole. Spazi e momenti in cui le persone collaborano per superare le piccole difficoltà quotidiane e creare una vita urbana più piacevole e coerente con il proprio sistema di valori.
Secondo una recente indagine sullo stato dell’arte dell’housing in UK, è possibile valutare l’efficacia delle forme (e relativi sistemi) di abitare collaborativo sulla base di una riflessione che mette a fuoco le specificità delle sfere della condivisione. Si tratta di un modello interpretativo che riguarda i diversi spazi e routine quotidiane che generano intimità, con determinate attività e spazi più vicino alla nostra concezione comune di cosa è “privato”, e cosa non lo è. Ad esempio, condividere i pasti quotidiani si avvicina senz’altro a quella più interna (la privacy di una famiglia) rispetto alla condivisione di una lavatrice o di una camera degli ospiti. Nelle case convenzionali, dove vive un solo nucleo familiare e c’è molto poco spazio, le diverse sfere si sovrappongono e all’interno di esse si giocano attività quotidiane, rituali e interazione sociale/amicale. All’interno della vita condivisa, come nel caso dei co-housing ma vale anche per le comunità, c’è spesso una maggiore necessità (dovuta all’ampiezza di spazi e variabili) di negoziare un equilibrio tra intimità e privacy. Lo studio dimostra che è altrettanto importante strutturare e mantenere separate le sfere più “formali” sia intime sia conviviali (come lo spazio del cibo), così come sostenere gli incontri più informali o casuali, come ad esempio quelli che possono verificarsi negli spazi e servizi comuni come nella lavanderia o in giardino/cortile: incontri che sono vitali per costruire un senso di comunità; nonché per costruire relazioni e amicizie, senza richiedere necessariamente un contatto che considereremmo intimo.
Nell’abitare contemporaneo, nelle abitazioni collaborative per come sono state illustrate fin qui in modo particolare, l’esterno entra a far parte dell’interiorità della casa (La Cecla, 1988) stimolando la sfida progettuale di “nuove soglie” relazionali e funzionali. In Nuove specie di spazi (2003) definisce “spazi soglia” quegli ambienti in cui le connessioni che si generano tra le persone si riflettono nella fluidità e nella perdita di confini fisici tra interno ed esterno. Lo spazio soglia non è una semplice porta o finestra, un marcatore che conduce da una zona all’altra o da un interno a un esterno, ma è considerato come un vero e proprio spazio dotato di una sua interiorità. Lo “spazio soglia” è generalmente un ibrido: spazio semi-pubblico dato in gestione ai privati e collegato al tempo che lo regola, oppure spazio semi-privato il cui il proprietario (appunto privato) cede diritti per migliorare la qualità della sua offerta per una utilità collettiva.
Per le specificità della “popolazione anziana” l’abitare collaborativo include riflessioni su soggetti con diversi livelli di autonomia e patologia, nello specifico si vuole qui approfondire il tema dell’offerta residenziale per Alzheimer e altre demenze di tipo cognitivo.
Essendo ormai comprovata la struttura flessibile e la capacità di modificarsi del cervello, i medici consigliano di mantenere delle buone abitudini, che se non come misura preventiva possono per lo meno aiutare a ritardare l’invecchiamento del cervello e di conseguenza a preservarlo da alcune patologie. Gli stimoli ambientali sono determinanti nel continuare a modellare il cervello, che di conseguenza mantiene la capacità di modificarsi creando nuovi circuiti e la possibilità di creare connessioni (brain reserve), diminuendo i rischi e il danneggiamento cerebrale. Perciò risulta interessante indagare la particolare relazione tra interior design e caratteristiche dei pazienti Alzheimer: l’attenta progettazione degli elementi di tali sistemi ambientali, siano essi tangibili (colori, finiture, ecc.) o immateriali (luci, suoni, video, aria condizionata, ecc.), risulta determinante per potenziare l’efficacia terapeutica delle residenze stesse, che concorrono a divenire fattore attivo nello scenario delle terapie non farmacologiche (TNF).
Come nel modello concettuale e funzionale degli Alzheimer café (in estrema sintesi: infopoint – agorà – terapie) la formula auspicabile per “abitare e abilitare” la residenzialità dei soggetti con demenze di tipo cognitivo è quella di luoghi che possano diventare punto di incontro tra le diverse parti della società: dai “sani” ai malati, dalle persone informate sulla malattia e da chi la ignora. Uno spazio aperto in cui entrare in contatto con una realtà diversa ma non da evitare. Lo spazio non è legato a un immaginario ospedaliero e questo aiuta a creare una situazione confortevole per tutti.
Lo spazio si può dividere concettualmente in tante aree quante sono le funzioni che si vogliono assegnare: riprendendo la definizione di Faré, quando si crea una situazione in cui il visitatore accede alla struttura per partecipare ad attività collettive (come video, presentazioni o situazioni conviviali) lo spazio si definisce pubblico; nel momento in cui ci si addentra nella questione della malattia lo spazio è definito semi-privato (ad esempio per l’erogazione delle terapie: generalmente arte-, musico- e pet-therapy); infine, nella situazione in cui il familiare o il paziente/utente stesso vuole rientrare nell’intimità della residenza, l’ambiente si delimita con i confini definiti della struttura ovvero lo spazio privato (indoor).
Le attività che avvengono all’interno delle aree outdoor, siano esse pubbliche o semi-privare, assolvono la doppia finalità di: essere veicolo di sensibilizzazione di singoli cittadini e opinione pubblica verso la problematica delle demenze e dell’Alzheimer; offrirsi come spazi/situazioni di supporto alle istituzioni e associazioni, esterne al proprietario e/o al gestore della residenza vera e propria, che altrove trovano difficoltà nello svolgere le loro funzioni.
Queste premesse convergono sinergicamente nell’esperienza del progetto comunitario del “Giardino sensoriale e intergenerazionale” realizzato presso il Centro Polifunzionale per Anziani “Corte Busca” di Lomagna (Lecco). Un progetto sperimentale e innovativo, che propone un luogo di incontro, ricreativo e terapeutico all’interno di un servizio residenziale per Alzheimer. Il progetto si focalizza sull’area esterna di pertinenza del servizio (da qui in poi “il Giardino”) per ri-disegnarla sia a beneficio degli Ospiti sia della cittadinanza; infatti il giardino non è pensato e rivolto ai soli ospiti del Centro Diurno e degli Appartamenti di CORTE BUSCA, ma vuole essere messo a disposizione di un ventaglio integrato di fruitori in dialogo con gli Ospiti. Il progetto architettonico ha trasformato lo spazio esterno della casa in un luogo di progetti potenziali e di relazioni tra le generazioni; una risorsa per la comunità locale, un luogo di concreta “coesione sociale” e di apprendimento; un luogo di benessere e di contatto -tutelato- con l’ambiente naturale.
In letteratura è nota la definizione di ambiente terapeutico quale specifico luogo in grado, per le sue caratteristiche spaziali, di supportare gli individui con demenza e le loro famiglie. Gli ambienti terapeutici possono riferirsi a spazi sicuri: fisici, sociali e psicologici, progettati specificamente per essere curativi. Molto spesso, il termine ambiente terapeutico si riferisce a uno spazio fisico creato per consentire agli individui di elaborare e superare determinati problemi medici. L’esperienza di Corte Busca si inserisce tra le esperienze più interessanti di ambienti terapeutici a livello nazionale; tra queste si citano il format Alzheimer café (http://www.alzheimer.it/alz_cafe.html) ma anche il “Treno terapeutico”, definito da Biamonti come un vero e proprio habitat; come esempio di soluzioni abitative collaborative vi sono recenti casi di residenze, cosiddette, “a villaggio“ con abitanti mono-target (es. Monza – https://ilpaeseritrovato.it/) o multi-target (Piazza Grace, Milano – https://grace.it/piazza-grace/).
Il progetto Corte Busca nasce prima della pandemia: periodo nel quale, con ancor più forza, il Covid ha messo in luce l’urgenza di ambienti costruiti che promuovano la salute e l’inclusività. In poche settimane la pandemia ha drasticamente cambiato il rapporto della maggior parte delle persone con la città: i quartieri, le strade e le piazze in cui viviamo si sono svuotati. Non siamo programmati per il distanziamento sociale e non ci siamo evoluti per essere fisicamente separati dai nostri simili, per questo risulta innaturale vivere in una città senza poter utilizzare gli spazi pubblici.
Inoltre, tra il primo e il secondo lockdown si è registrata una contrazione del ricorso alla prevenzione e alla cura, ma in un paese in cui l’aspettativa di vita è tra le più alte d’Europa (83,1 anni secondo Eurostat), fare prevenzione significa non solo investire nella qualità della vita, ma anche razionalizzare la spesa sanitaria.
Lo scenario di cura post-pandemia si fonderà su un nuovo paradigma “di vicinato” basato su prevenzione, prossimità, smartizzaizone. La densità demografica può essere diluita ampliando lo spazio pubblico nello spazio privato, per esempio utilizzando gli spazi privati dei cortili degli edifici, che sempre più diventeranno spazi pubblici riprendendo il principio della corte e ricreando nuove scenografie sociali. Secondo Pineo, docente di Sustainable and Healthy Built Environments presso l’UCL Institute for Environmental Design and Engineering (IEDE), un edificio che promuove la salute tiene conto delle esigenze di tutta la popolazione; e dovremmo ampliare questo approccio sia nello spazio (a livello locale, regionale, globale) che nel tempo.
Che siano privati o pubblici, urbani o rurali, gli ambienti costruiti dovranno assistere alla salute di tutti i loro utenti: si stima infatti che ogni euro investito in prevenzione generi 2,9 euro di risparmio nella spesa per prestazioni terapeutiche e riabilitative nel 2050. Occorrerà concentrarsi sugli impatti che le progettazioni o le riqualificazioni potranno avere non solo sui loro occupanti, in senso stretto, ma anche sulle comunità vicine e persino sulle persone che vivono molto più lontano (nda. nel quartiere).
ELENA GIUNTA
Docente presso il Dipartimento di Design del Politecnico